La gestione dell’acqua e le mappe dei periti

Per tutto il XV e XVI secolo le famiglie nobili veneziane furono impegnate nella bonifica dei terreni grazie all’escavo di canali e l’introduzione di nuove colture. Per regolarizzare gli interventi di bonifica, la Repubblica di Venezia istituì nel 1556 il “Provveditorato sopra i Beni Inculti” che rilasciava le autorizzazioni per l’uso dell’acqua. I periti inviati produssero delle straordinarie mappe dove sono illustrati i canali, ma anche gli insediamenti rurali, le ville, le chiese, ecc.

I supplicanti erano coloro che chiedevano l’uso dell’acqua, cioè i proprietari terrieri: i nobili Capra, i Barbaran, i Cuman, i Cappello, i Valmarana, i Diedo, ecc.  I Capra, ad esempio,  dal 1557 avevano già ottenuto il diritto di utilizzare l’acqua del Ceresone per irrigare i propri terreni. Un secolo dopo la stessa richiesta interessava la proprietà di ben ottocentotrentaquattro campi (Golin, 2017).

La mappa, che in questo contesto riproduciamo in modo frammentario, fa parte di questi documenti e risale al 1688 (su concessione della Biblioteca civica Bertoliana di Vicenza), fonte scelta per identificare in particolar modo i mulini del nostro territorio. Nella mappa si leggono i nomi dei supplicanti: Disegno fatto da me Antonio Benoni perito ordin.o sopra la supplica dei [Sig.ri] Francesco et Angelo fratelli Diedi 19 dicembre 1688 […].

Sono interessanti anche le mappe del nostro Comune, di varie epoche e parte in copia, che possiamo ammirare nel Museo delle Risorgive, tra le quali una mappa di collezione privata risalente al 1715, intitolata “Villa di S.n Pietro in Gù” dove si legge il nome del perito incaricato dal “Provveditorato sopra i beni inculti” : copia di una parte di dissegno formato di D. Iseppo Cuman Perito ordinario […].

L’acqua veniva principalmente prelevata dal fiume Brenta o dai paleoalvei, talvolta lasciandoli in magra per l’eccessivo prelievo. Il sabato e la domenica erano i giorni in cui si dava preferenza alle irrigazioni, quando i mulini non lavoravano. Non dimentichiamo che un apporto importante d’acqua era dato dalle risorgive, molto più numerose di oggi e sparse in tutto il territorio. Grazie alla presenza di molta acqua fu possibile l’introduzione della coltivazione del riso, del mais e la produzione del foraggio per l’alimentazione dei bovini.

Il riso

Il riso (Oryza sativa) è una pianta erbacea annuale, del gruppo dei cereali, originale dell’Asia meridionale, dove sembra fosse coltivata già nel III secolo a.C.

La sua coltura è stata introdotta in Europa dagli arabi, a partire dall’VIII secolo. In Italia il riso fu coltivato per la prima volta in Campania dagli Aragonesi, nel XIV secolo e successivamente in Toscana e nella Pianura Padana.

In Lombardia e in Veneto le prime coltivazioni di riso risalgono al XVI secolo. La diffusione di questa nuova coltura in vaste aree della pianura veneta, a partire dal territorio veronese, nel 1574 costrinse la Repubblica di Venezia ad emanare un decreto restrittivo, per la diffusione della malaria causata dalle acque stagnanti.

La relazione del perito ai Beni Inculti Bartolomeo Galese del 1596 ci permette di conoscere l’introduzione del riso nel territorio vicentino, al quale anche San Pietro in Gu apparteneva. La prima risaia del 1560 è a Bagnolo, ora frazione di Lonigo, per opera dell’aristocratica famiglia veneziana dei Pisani (Cristiani, 2013). Dopo trent’anni, il riso sarà presente in gran parte della pianura vicentina e anche vicino a noi, con la vasta risaia dei nobili Grimani di Villa Spessa. Nel nostro territorio furono gli aristocratici vicentini a dare avvio alla coltivazione, in particolare i nobili Capra, Cuman poi Zilio, Negri, Cappello e Barbaran.

La coltivazione del riso crebbe in maniera alterna nel corso dei secoli e solo dalla metà del Seicento essa ebbe uno sviluppo significativo grazie alle nuove tecniche di produzione e l’introduzione dell’avvicendamento delle risaie con il prato stabile, il mais e il frumento.

In epoca napoleonica le risaie subirono una considerevole riduzione, a causa del perdurare delle febbri malariche, tendenza che si confermò per tutto l’Ottocento, come conferma il verbale del Consiglio Comunale di San Pietro in Gu del 31 Ottobre 1876: qualunque concessione ex novo di coltivazione di fondo a risaia in questo Comune è dannosa nei riguardi dell’igiene pubblica nella circostanza che molti campi a risaia vi esistono per cui la salute pubblica…di anno in anno va peggiorando essendo frequentissimi i casi di febbri miasmatice ed intermittenti…quindi delibera di opporsi.

Ad aprile la semina del riso veniva fatta a spaglio sopra l’acqua o su terreno melmoso. Il campo si teneva sommerso per mantenere la temperatura costante, per far germogliare il seme e per favorire la crescita della spiga. A giugno si procedeva con la mondatura a mano, ovvero si eliminavano le erbacce. Asciugato il terreno, tra settembre e ottobre si mietevano le spighe a strappo, che venivano poi trasportate in covoni alla pila, come quella ben conservata dei Toniato in Via Zanchetta, lungo la roggia Monella.

 

Il mais

Gli indigeni di Haiti chiamavano il cereale mahiz. In Italia ebbe molti nomi a seconda della regione e nel Veneto  formenton, sorgo o grano turco. I Portoghesi avrebbero portato il mais dall’America verso le Indie Orientali per poi passare in Egitto e nell’Asia Minore. Venuto in Italia dalle terre occupate dai Turchi, prese il nome di grano turco (Messedaglia, 2008).

Il mais, come il riso, venne introdotto nelle nostre coltivazioni a partire dal XVI secolo. Dapprima venne coltivato negli orti come pianta esotica, per poi diffondersi nel territorio grazie alla politica agraria del doge Francesco Donà (1545-1553).  La prima provincia a coltivare il riso fu Rovigo con la specie rossa e bianca (Mantese, 1964). Non si hanno notizie sull’origine della coltivazione in provincia di Vicenza alla quale San Pietro in Gu apparteneva. E’ plausibile che nella nostra zona il mais sia stato introdotto dai nobili Grimani di Villa Spessa, in quanto l’esotico cereale venne dipinto nel 1570 da Camillo Mantovano, nel soffitto di una sala di Palazzo Grimani di Santa Maria Formosa a Venezia.

Di certo, il nuovo cereale migliorò notevolmente la disponibilità di cibo, in quanto la dieta povera dei contadini si limitava ad ortaggi, legumi, formaggi e poco altro, sempre in moderate quantità. La polenta permise di sfamare intere generazioni soprattutto in inverno e nei periodi di carestia.

Il Catasto Austriaco e l’uso dell’acqua a San Pietro in Gu

In un saggio di Sergio Varini possiamo trovare interessanti notizie sul territorio di San Pietro in Engù e l’uso dell’acqua, non solo a scopo irriguo, nella prima metà del XIX secolo . Le informazioni sono tratte dalla relazione censuaria del “Catasto Austriaco” del 1826 conservata presso l’Archivio di Stato di Venezia. Riporto integralmente alcune parti di questa descrizione:

In questo territorio vi è il piccolo fiume Ceresone che scorre da Tramontana a mezzogiorno e vi sono ancora altri canali di investitura i quali si chiamano L’Oselin, ed indi Armedola, la Dieda, il Fontanon, la Ceresina o Borga, la Capra ossia Conte Marca, la Fratta, la Cumanella.

Nessuno degli alvei predetti è navigabile, o flottabile ed hanno un corso moderato e piano, e non porta seco alcuna materia.

Tutte le acque predette scorrono in alveo naturale incassato sotto gli adiacenti terreni.

Il Ceresone serve alla attivazione di quattro opefizi da Molino a due e tre ruote, il primo di ragione Varese, il secondo Capra, il terzo Zambotto e il quarto Vivante.

La roggia Fontanon serve all’andamento di un edificio da Pila di ragione Capra, la Roggia Borga all’andamento di altra Pila di ragione Cabianca e l’Armedola pure all’andamento di altra Pila di ragione degli eredi Cuman ed il maglio pure Cuman.

Tanto il Ceresone quanto tutte le altre Roggie di Investitura di sopra distinte servono inoltre alla irrigazione di praterie e risaie. Queste Roggie non portano torbide né utili né dannose, né sono dirette ad altri usi.

La utilità di queste acque serve ad una estensione limitata di terreni.

Le acque in generale sono fredde e crude e servono per la sola irrigazione estiva.

L’uso di queste acque dipende soltanto da titoli antichi di investitura e non da regolare conserzioni o società. I proprietari devono però incontrare i dispendi necessari per gli opportuni espurghi dei canali relativi, onde mantenere un libero corso delle acque investite.

Li sunominati canali non cagionano danni né corrosioni, né rotte alcuna né inondazioni di sorta, né cagionano alcun danno diretto per postumi o per difetto di scolo.

Le acque fluenti per detti alvei non apportano inghiaimenti, sabbie, strati di fango, ossia bellette, ed imbrattamento d’erba. Non portano però alcun godimento utile all’agricoltura [perché il prato irriguo era limitato].

Non portano acque di alcuna espansione, mentre le acque anche in caso di pioggia rimangono incassate fra terra nel proprio alveo.

In questo territorio comunale vi sono alcune sorgenti private, ossia fontane, per uso d’irrigazione, le quali o si uniscono alle rogge sunominate, o sorgono separatamente per uso d’irrigazione, tutte le su indicate acque servono per uso degli uomini, e dei bestiami, e sono costantemente buone (Varini, 2008).

La trasformazione agricoltura nella zona irrigua del Brenta

La prima metà del XIX secolo ha rappresentato un significativo cambiamento nell’agricoltura locale, che ha visto via via l’imporsi dei terreni arativi per i cereali,  sulla coltivazione del riso e del prato.

E’ ancora il Catasto austriaco del 1826 a fornirci dati interessanti: aratorio e risaia 67,05%, prato e brolo 29,22 %, bosco 0,02%, pascolo 0,64% (Varini, 2008).

I dati sono confermati anche da Giorgio Scarpa nella sua indagine del 1963 sull’agricoltura veneta attorno al 1840.  San Pietro in Gu apparteneva alla VII zona agraria “Irrigua del Brenta” con una superficie di 1647,4 ettari. La ripartizione dei coltivi era la seguente: il 77% seminativi, il 6% risaie, il 14% prati e il 3% boschi. I prati erano soprattutto ad est del Ceresone.

I campi arati per la semina, venivano definiti a coltura semplice e coltura promiscua quando quest’ultimi ospitavano le piantate di viti maritate (sostenute da alberi). In minore quantità, rispetto al terreno arativo, c’erano comunque anche prati con piantate.

Le viti maritate erano generalmente sostenute dai salici, ma si usava anche l’acero campestre, il pioppo, il gelso e il noce. Dagli alberi si ricavava il legname per l’uso domestico.  Il gelso era anche utile per l’allevamento dei bachi da seta. Gli alberi erano mediamente 20-25 per campo, con filari distanziati di 25-30 metri e così gli alberi di 5-6 metri. La produzione di vino e di grano dava al contadino la possibilità di pagare l’affitto. La piantata suppliva poi alla produzione di foraggio con la “lista erbosa”, ovvero uno stretto appezzamento di prato lungo le file di alberi. Si seminava trifoglio o erba medica e lo sfalcio avveniva due volte all’anno.

Solo in percentuale bassa i terreni arati ed i prati venivano irrigati e per questo definiti adaquatori (Scarpa, 1963). La coltivazione del mais era a rotazione anche triennale, mentre l’avena, l’orzo e il sorgo servivano principalmente per l’alimentazione.

In una nuova indagine di Giorgio Scarpa, riferita alla produzione agricola del 1910,  si mette in evidenza alcuni cambiamenti: un calo del 10% dei seminativi arborati (con le piantate), i prati irrigui risultano raddoppiati e la risaia è quasi scomparsa. Tutto questo ci fa capire come l’allevamento di bovini stesse avendo via via il predominio, causando la diminuzione dei terreni arati e l’aumento dei prati. Nel 1985 la “Carta foraggera del Destra Brenta” confermerà questa tendenza con la presenza di ben 1323 ettari di prati stabili.