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I nobili Capra, i mulini, il riso e le pile
Con la Repubblica di Venezia furono le nobili famiglie vicentine ad iniziare una estesa campagna di bonifica, in primis la famiglia Capra. Nel 1412 il vescovo di Vicenza Pietro Emiliani concesse il feudo di San Pietro in Gu ad Enrico di Vincenzo Capra e con esso la riscossione della decima, prima di diritto dei padovani Carraresi a partire dal 1348. Due anni prima Enrico aveva acquistato sei campi arativi, con viti ed altane, ovvero i sostegni per le viti (Bianchi, 2018).
Nel 1516 Felice Capra acquistò dai benedettini di San Felice e Fortunato in Vicenza parte del territorio ad ovest di San Pietro in Gu, facendo arginare il paleoalveoCorso d’acqua naturale dall’andamento tortuoso Leggi Oselino (Scalco, 2009). In un altro documento del 1557 troviamo la notizia che il conte Pietro Capra dichiarava diritti sul corso d’acqua Ceresone dal 1482. Nella polizza imposta dai francesi nel 1797, Girolamo e Paolo Capra dichiararono di essere in possesso 367 campi e Silvio Capra di 99 campi a Barche.
Alla vasta proprietà terriera seguì la costruzione di nobili dimore: Casa Capra-Thiene-Dalla Pozza nei pressi della piazza; poco lontano il palazzo Capra-Negri-Rigon; nei pressi della Crosara villino Capra-Boschetti-Rossi, palazzo Capra – Domeniconi; Villa Capra-Pedrazza-Casarotto e infine villa Capra-Munari ad Armèdola.
Lungo il corso del Ceresone, i Capra costruirono anche tre mulini: il mulino Pesavento di via Sega, ben conservato grazie alla lungimiranza degli attuali proprietari, il mulino Meneghetti di via Zanchetta e quello di via Rebezza. Esisteva poi un altro mulino a Barche, passato di mano a vari proprietari, tra questi i nobili Diedo e Piacentini. Questi mulini sono nati per la maggior parte come pile da riso, in considerazione dell’estesa coltivazione di questo cereale a partire dalla seconda metà del XVI secolo. Con l’incremento delle coltivazione di frumento, orzo e altri cereali, questi opifici sono stati convertiti in mulini per la produzione di farine, in segherie o magli. Talvolta le funzioni convivevano nello stesso mulino grazie alla presenza di più ruote, come ad esempio nel mulino Pesavento o nel mulino di Barche.
Palazzo Capra – Negri – Rigon prima del restauro, una delle prime dimore dei nobili Capra.
Il Ceresone veniva descritto come “fiumicello” per l’importante portata d’acqua. Lo storico Maccà scrive a tal proposito: “Gira quivi nel comune di San Pietro in Gù otto ruote di molini, e tre altre del comun di Barche. […] v’è una pila da riso, ed un’altra ve n’è nel comun di Calonega girate da acqua di sorgenti: un’altra parte se ne trova in Armedola girata da acqua causata dalle fontane di Bressanvido, la qual acqua gira anche un maglio di ferro nel comun stesso di Armedola” (Maccà, 1813).
Il corso d’acqua già nel 1566 sarebbe stato largo quattro metri e con una profondità di settanta centimetri. I “Provveditori dei Beni Inculti”, in seguito all’ispezione del tecnico Giacomo Gastaldi, rilevavano che all’altezza del mulino di Barche passavano diciannove quadretti d’acqua. Un quadretto veneto corrispondeva ad un foro quadrato di trentasei centimetri di lato.
I mulini erano anche luogo di ritrovo. In considerazione del numero di persone che vi afferivano, spesso potevamo trovare altre attività come quella del falegname, il marangon, dell’arrotino, di chi vendeva attrezzi e prodotti agricoli. Andare al mulino era spesso occasione di scambio di novità e aggiornamento sulla lavorazione dei campi e la vita in paese.
Come erano fatti i mulini per i cereali
I mulini del Ceresone erano tutti di tipo idraulico con ruote verticali, inventato in epoca romana e documentato da Vitruvio nel I secolo a.C.
La ruota era montata su un asse orizzontale (detto anche albero o fuso) che penetrava all’interno attraverso un foro sul muro. L’asse era generalmente di legno di rovere. Nell’albero venivano poi inserite ad incastro delle assi rettangolari (in genere quattro o sei), mentre nella parte circolare, incastrati in appositi intagli, si trovavano i manici, ovvero i sostegni dove venivano fissate le pale, quasi sempre in legno di larice. Le ruote verticali avevano un diametro di tre o cinque metri e venivano mosse dall’acqua che scorreva da sopra o sotto.
L’asse della ruota era sostenuto alle estremità da cavalletti di legno o mattoni per permettere la rotazione dell’albero. Alle estremità veniva inserito un perno in ferro, detto asejo, che appoggiava sull’asejara, ovvero un grosso sasso di granito con un incavo. La parte terminale dell’asse era rinforzato da mozzi in ferro bloccati da una o più cerchiature.
L’asse veniva inserito nell’apertura circolare del muro detta ramenato, che poteva essere in pietra o mattoni.
L’acqua si allargava prima dei portelloni e scorreva su di un pavimento di legno di rovere, pietra o mattoni piatti o a spina di pesce detto salesà. Questo pavimento permetteva di immettere nei canali acqua pulita e di livello costante.
Nel salto dell’acqua dell’ex mulino di Barche si può ancora vedere parte del pavimento di mattoni posati a spina di pesce.
I canali erano realizzati con assi in legno o muretti. Prima dell’arrivo dell’acqua nel salesà, venivano sistemate le gore, griglie di ferro che trattenevano le ramaglie o altre cose trasportate dall’acqua (Rosset, 2015).
La chiusa era fatta da un portellone in legno che veniva alzato o ribassato con argani a catena agganciata al portellone tramite ferri con anello inchiodati, detti apostoli o pianconi. Ogni chiusa incanalava l’acqua per una ruota.
In caso di piena, per non danneggiare le ruote, si chiudeva la cuna, il canale dove scorreva l’acqua per la ruota e si alzava l’attigua chiusa bastarda per far defluire l’acqua nel canale sboradore.
All’interno del mulino l’albero faceva ruotare una ruota in legno, detta lubecchio o scu, fornita di denti. Questi si incastravano nella lanterna che ruotando muoveva l’albero verticale che azionava le macine. Le macine erano formate da due mole: la mola superiore era detta rotante e quella inferiore giacente. Un sistema di leve modificava la distanza tra mole a seconda del macinato che si voleva ottenere. Sopra le mole veniva posizionata la tramoggia che faceva scendere nel foro delle mole il frumento. All’interno della tramoggia veniva legato un campanellino che suonava quando questa era quasi vuota (Pavan, 2005).
Come erano fatte le pile da riso
La struttura esterna dei canali e delle ruote era praticamente identica ad un comune mulino.
L’interno invece era diverso. Incastrato nella lanterna c’era una piccolo lubecchio che perpendicolarmente faceva girare un albero munito di parmole in corrispondenza dei pestelli. Le parmole alzavano e rilasciavano i pestelli che battevano il riso contenuto nelle conche in pietra. Nei pressi del mulino Meneghetti di Via Zanchetta sono ancora conservate otto conche che facevano parte dell’antica pila.
Interessante è invece la pila dei Toniato, sempre in Via Zanchetta, in quanto conserva tutta la struttura in legno.
Se i costruttori dei mulini furono principalmente i nobili Capra, nei secoli si ebbero vari passaggi di proprietà, delle quali vi proponiamo una sintesi cronologica, certamente incompleta e da integrare, tratta dalle ricerche di Alberto Golin (Golin, 2014).
I mulini e pile da riso
Il mulino Meneghetti della Rebezza
già Capra – Munari – Barbaran – Conti – Zambotto – Marchesini
La pila da riso Toniato di via Zanchetta
già Capra – Barbaran Capra – Bozzolan – Garcea – Toniato